Purgatorio (Italian)


LA DIVINA COMMEDIA
Di Dante Alighieri
PURGATORIO

Purgatorio: Canto I

Per correr miglior acque alza le vele
Omai la navicella del mio ingegno,
Che lascia dietro a sé mar sì crudele;
e canterò di quel secondo regno
Dove l’umano spirito si purga
E di salire al ciel diventa degno.
Ma qui la morta poesì resurga,
O sante Muse, poi che vostro sono;
E qui Caliopè alquanto surga,
seguitando il mio canto con quel suono
Di cui le Piche misere sentiro
Lo colpo tal, che disperar perdono.
Dolce color d’oriental zaffiro,
Che s’accoglieva nel sereno aspetto
Del mezzo, puro infino al primo giro,
a li occhi miei ricominciò diletto,
Tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta
Che m’avea contristati li occhi e ‘l petto.
Lo bel pianeto che d’amar conforta
Faceva tutto rider l’oriente,
Velando i Pesci

ch’erano in sua scorta.
I’ mi volsi a man destra, e puosi mente
A l’altro polo, e vidi quattro stelle
Non viste mai fuor ch’a la prima gente.
Goder pareva ‘l ciel di lor fiammelle:
Oh settentrional vedovo sito,
Poi che privato se’ di mirar quelle!
Com’io da loro sguardo fui partito,
Un poco me volgendo a l ‘altro polo,
Là onde il Carro già era sparito,
vidi presso di me un veglio solo,
Degno di tanta reverenza in vista,
Che più non dee a padre alcun figliuolo.
Lunga la barba e di pel bianco mista
Portava, a’ suoi capelli simigliante,
De’ quai cadeva al petto doppia lista.
Li raggi de le quattro luci sante
Fregiavan sì la sua faccia di lume,
Ch’i’ ‘l vedea come ‘l sol fosse davante.
“Chi siete voi che contro al cieco fiume
Fuggita avete la pregione etterna?”,
Diss’el, movendo quelle oneste piume.
“Chi v’ha guidati, o che vi fu lucerna,
Uscendo fuor de la profonda notte
Che sempre nera fa la valle inferna?
Son le leggi d’abisso così rotte?
O è mutato in ciel novo consiglio,
Che, dannati, venite a le mie grotte?”.
Lo duca mio allor mi diè di piglio,
E con parole e con mani e con cenni
Reverenti mi fé
le gambe e ‘l ciglio.
Poscia rispuose lui: “Da me non venni:
Donna scese del ciel, per li cui prieghi
De la mia compagnia costui sovvenni.
Ma da ch’è tuo voler che più si spieghi
Di nostra condizion com’ell’è vera,
Esser non puote il mio che a te si nieghi.
Questi non vide mai l’ultima sera;
Ma per la sua follia le fu sì presso,
Che molto poco tempo a volger era.
Sì com’io dissi, fui mandato ad esso
Per lui campare; e non lì era altra via
Che questa per la quale i’ mi son messo.
Mostrata ho lui tutta la gente ria;
E ora intendo mostrar quelli spirti
Che purgan sé sotto la tua balìa.
Com’io l’ho tratto, saria lungo a dirti;
De l’alto scende virtù che m’aiuta
Conducerlo a vederti e a udirti.
Or ti piaccia gradir la sua venuta:
Libertà va cercando, ch’è sì cara,
Come sa chi per lei vita rifiuta.
Tu ‘l sai, ché non ti fu per lei amara
In Utica la morte, ove lasciasti
La vesta ch’al gran dì sarà sì chiara.
Non son li editti etterni per noi guasti,
Ché questi vive, e Minòs me non lega;
Ma son del cerchio ove son li occhi casti
di Marzia tua, che ‘n vista ancor ti priega,
O santo petto, che per tua la tegni:
Per lo suo amore adunque a noi ti piega.
Lasciane andar per li tuoi sette regni;
Grazie riporterò di te a lei,
Se d’esser mentovato là giù degni”.
“Marzia piacque tanto a li occhi miei
Mentre ch’i’ fu’ di là”, diss’elli allora,
“che quante grazie volse da me, fei.
Or che di là dal mal fiume dimora,
Più muover non mi può, per quella legge
Che fatta fu quando me n’usci’ fora.
Ma se donna del ciel ti muove e regge,
Come tu di’ , non c’è mestier lusinghe:
Bastisi ben che per lei mi richegge.
Va dunque, e fa che tu costui ricinghe
D’un giunco schietto e che li lavi ‘l viso,
Sì ch’ogne sucidume quindi stinghe;
ché non si converria, l’occhio sorpriso
D’alcuna nebbia, andar dinanzi al primo
Ministro, ch’è di quei di paradiso.
Questa isoletta intorno ad imo ad imo,
Là giù colà dove la batte l’onda,
Porta di giunchi sovra ‘l molle limo;
null’altra pianta che facesse fronda
O indurasse, vi puote aver vita,
Però ch’a le percosse non seconda.
Poscia non sia di qua vostra reddita;
Lo sol vi mosterrà, che surge omai,
Prendere il monte a più lieve salita”.
Così sparì; e io sù mi levai
Sanza parlare, e tutto mi ritrassi
Al duca mio, e li occhi a lui drizzai.
El cominciò: “Figliuol, segui i miei passi:
Volgianci in dietro, ché di qua dichina
Questa pianura a’ suoi termini bassi”.
L’alba vinceva l’ora mattutina
Che fuggia innanzi, sì che di lontano
Conobbi il tremolar de la marina.
Noi andavam per lo solingo piano
Com’om che torna a la perduta strada,
Che ‘nfino ad essa li pare ire in vano.
Quando noi fummo là ‘ve la rugiada
Pugna col sole, per essere in parte
Dove, ad orezza, poco si dirada,
ambo le mani in su l’erbetta sparte
Soavemente ‘l mio maestro pose:
Ond’io, che fui accorto di sua arte,
porsi ver’ lui le guance lagrimose:
Ivi mi fece tutto discoverto
Quel color che l’inferno mi nascose.
Venimmo poi in sul lito diserto,
Che mai non vide navicar sue acque
Omo, che di tornar sia poscia esperto.
Quivi mi cinse sì com’altrui piacque:
Oh maraviglia! ché qual elli scelse
L’umile pianta, cotal si rinacque
subitamente là onde l’avelse.

Purgatorio: Canto II

Già era ‘l sole a l’orizzonte giunto
Lo cui meridian cerchio coverchia
Ierusalèm col suo più alto punto;
e la notte, che opposita a lui cerchia,
Uscia di Gange fuor con le Bilance,
Che le caggion di man quando soverchia;
sì che le bianche e le vermiglie guance,
Là dov’i’ era, de la bella Aurora
Per troppa etate divenivan rance.
Noi eravam lunghesso mare ancora,
Come gente che pensa a suo cammino,
Che va col cuore e col corpo dimora.
Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino,
Per li grossi vapor Marte rosseggia
Giù nel ponente sovra ‘l suol marino,
cotal m’apparve, s’io ancor lo veggia,
Un lume per lo mar venir sì ratto,
Che ‘l muover suo nessun volar pareggia.
Dal qual com’io un poco ebbi ritratto
L’occhio per domandar lo duca mio,
Rividil più lucente e maggior fatto.
Poi d’ogne lato ad esso m’appario
Un non sapeva che bianco, e di sotto
A poco a poco un altro a lui uscio.
Lo mio maestro ancor non facea motto,
Mentre che i primi bianchi apparver ali;
Allor che ben conobbe il galeotto,
gridò: “Fa, fa che le ginocchia cali.
Ecco l’angel di Dio: piega le mani;
Omai vedrai di sì fatti officiali.
Vedi che sdegna li argomenti umani,
Sì che remo non vuol, né altro velo
Che l’ali sue, tra liti sì lontani.
Vedi come l’ha dritte verso ‘l cielo,
Trattando l’aere con l’etterne penne,
Che non si mutan come mortal pelo”.
Poi, come più e più verso noi venne
L’uccel divino, più chiaro appariva:
Per che l’occhio da presso nol sostenne,
ma chinail giuso; e quei sen venne a riva
Con un vasello snelletto e leggero,
Tanto che l’acqua nulla ne ‘nghiottiva.
Da poppa stava il celestial nocchiero,
Tal che faria beato pur descripto;
E più di cento spirti entro sediero.
‘In exitu Israel de Aegypto’
Cantavan tutti insieme ad una voce
Con quanto di quel salmo è poscia scripto.
Poi fece il segno lor di santa croce;
Ond’ei si gittar tutti in su la piaggia;
Ed el sen gì, come venne, veloce.
La turba che rimase lì, selvaggia
Parea del loco, rimirando intorno
Come colui che nove cose assaggia.
Da tutte parti saettava il giorno
Lo sol, ch’avea con le saette conte
Di mezzo ‘l ciel cacciato Capricorno,
quando la nova gente alzò la fronte
Ver’ noi, dicendo a noi: “Se voi sapete,
Mostratene la via di gire al monte”.
E Virgilio rispuose: “Voi credete
Forse che siamo esperti d’esto loco;
Ma noi siam peregrin come voi siete.
Dianzi venimmo, innanzi a voi un poco,
Per altra via, che fu sì aspra e forte,
Che lo salire omai ne parrà gioco”.
L’anime, che si fuor di me accorte,
Per lo spirare, ch’i’ era ancor vivo,
Maravigliando diventaro smorte.
E come a messagger che porta ulivo
Tragge la gente per udir novelle,
E di calcar nessun si mostra schivo,
così al viso mio s’affisar quelle
Anime fortunate tutte quante,
Quasi obliando d’ire a farsi belle.
Io vidi una di lor trarresi avante
Per abbracciarmi con sì grande affetto,
Che mosse me a far lo somigliante.
Ohi ombre vane, fuor che ne l’aspetto!
Tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
E tante mi tornai con esse al petto.
Di maraviglia, credo, mi dipinsi;
Per che l’ombra sorrise e si ritrasse,
E io, seguendo lei, oltre mi pinsi.
Soavemente disse ch’io posasse;
Allor conobbi chi era, e pregai
Che, per parlarmi, un poco s’arrestasse.
Rispuosemi: “Così com’io t’amai
Nel mortal corpo, così t’amo sciolta:
Però m’arresto; ma tu perché vai?”.
“Casella mio, per tornar altra volta
Là dov’io son, fo io questo viaggio”,
Diss’io; “ma a te com’è tanta ora tolta?”.
Ed elli a me: “Nessun m’è fatto oltraggio,
Se quei che leva quando e cui li piace,
Più volte m’ha negato esto passaggio;
ché di giusto voler lo suo si face:
Veramente da tre mesi elli ha tolto
Chi ha voluto intrar, con tutta pace.
Ond’io, ch’era ora a la marina vòlto
Dove l’acqua di Tevero s’insala,
Benignamente fu’ da lui ricolto.
A quella foce ha elli or dritta l’ala,
Però che sempre quivi si ricoglie
Qual verso Acheronte non si cala”.
E io: “Se nuova legge non ti toglie
Memoria o uso a l’amoroso canto
Che mi solea quetar tutte mie doglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
L’anima mia, che, con la sua persona
Venendo qui, è affannata tanto!”.
‘Amor che ne la mente mi ragiona’
Cominciò elli allor sì dolcemente,
Che la dolcezza ancor dentro mi suona.
Lo mio maestro e io e quella gente
Ch’eran con lui parevan sì contenti,
Come a nessun toccasse altro la mente.
Noi eravam tutti fissi e attenti
A le sue note; ed ecco il veglio onesto
Gridando: “Che è ciò, spiriti lenti?
qual negligenza, quale stare è questo?
Correte al monte a spogliarvi lo scoglio
Ch’esser non lascia a voi Dio manifesto”.
Come quando, cogliendo biado o loglio,
Li colombi adunati a la pastura,
Queti, sanza mostrar l’usato orgoglio,
se cosa appare ond’elli abbian paura,
Subitamente lasciano star l’esca,
Perch’assaliti son da maggior cura;
così vid’io quella masnada fresca
Lasciar lo canto, e fuggir ver’ la costa,
Com’om che va, né sa dove riesca:
né la nostra partita fu men tosta.

Purgatorio: Canto III

Avvegna che la subitana fuga
Dispergesse color per la campagna,
Rivolti al monte ove ragion ne fruga,
i’ mi ristrinsi a la fida compagna:
E come sare’ io sanza lui corso?
Chi m’avria tratto su per la montagna?
El mi parea da sé stesso rimorso:
O dignitosa coscienza e netta,
Come t’è picciol fallo amaro morso!
Quando li piedi suoi lasciar la fretta,
Che l’onestade ad ogn’atto dismaga,
La mente mia, che prima era ristretta,
lo ‘ntento rallargò, sì come vaga,
E diedi ‘l viso mio incontr’al poggio
Che ‘nverso ‘l ciel più alto si dislaga.
Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio,
Rotto m’era dinanzi a la figura,
Ch’avea in me de’ suoi raggi l’appoggio.
Io mi volsi dallato con paura
D’essere abbandonato, quand’io vidi
Solo dinanzi a me la terra oscura;
e ‘l mio conforto: “Perché pur diffidi?”,
A dir mi cominciò tutto rivolto;
“non credi tu me teco e ch’io ti guidi?
Vespero è già colà dov’è sepolto
Lo corpo dentro al quale io facea ombra:
Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto.
Ora, se innanzi a me nulla s’aombra,
Non ti maravigliar più che d’i cieli
Che l’uno a l’altro raggio non ingombra.
A sofferir tormenti, caldi e geli
Simili corpi la Virtù dispone
Che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli.
Matto è chi spera che nostra ragione
Possa trascorrer la infinita via
Che tiene una sustanza in tre persone.
State contenti, umana gente, al quia;
Ché se potuto aveste veder tutto,
Mestier non era parturir Maria;
e disiar vedeste sanza frutto
Tai che sarebbe lor disio quetato,
Ch’etternalmente è dato lor per lutto:
io dico d’Aristotile e di Plato
E di molt’altri”; e qui chinò la fronte,
E più non disse, e rimase turbato.
Noi divenimmo intanto a piè del monte;
Quivi trovammo la roccia sì erta,
Che ‘ndarno vi sarien le gambe pronte.
Tra Lerice e Turbìa la più diserta,
La più rotta ruina è una scala,
Verso di quella, agevole e aperta.
“Or chi sa da qual man la costa cala”,
Disse ‘l maestro mio fermando ‘l passo,
“sì che possa salir chi va sanz’ala?”.
E mentre ch’e’ tenendo ‘l viso basso
Essaminava del cammin la mente,
E io mirava suso intorno al sasso,
da man sinistra m’apparì una gente
D’anime, che movieno i piè ver’ noi,
E non pareva, sì venian lente.
“Leva”, diss’io, “maestro, li occhi tuoi:
Ecco di qua chi ne darà consiglio,
Se tu da te medesmo aver nol puoi”.
Guardò allora, e con libero piglio
Rispuose: “Andiamo in là, ch’ei vegnon piano;
E tu ferma la spene, dolce figlio”.
Ancora era quel popol di lontano,
I’ dico dopo i nostri mille passi,
Quanto un buon gittator trarria con mano,
quando si strinser tutti ai duri massi
De l’alta ripa, e stetter fermi e stretti
Com’a guardar, chi va dubbiando, stassi.
“O ben finiti, o già spiriti eletti”,
Virgilio incominciò, “per quella pace
Ch’i’ credo che per voi tutti s’aspetti,
ditene dove la montagna giace
Sì che possibil sia l’andare in suso;
Ché perder tempo a chi più sa più spiace”.
Come le pecorelle escon del chiuso
A una, a due, a tre, e l’altre stanno
Timidette atterrando l’occhio e ‘l muso;
e ciò che fa la prima, e l’altre fanno,
Addossandosi a lei, s’ella s’arresta,
Semplici e quete, e lo ‘mperché non sanno;
sì vid’io muovere a venir la testa
Di quella mandra fortunata allotta,
Pudica in faccia e ne l’andare onesta.
Come color dinanzi vider rotta
La luce in terra dal mio destro canto,
Sì che l’ombra era da me a la grotta,
restaro, e trasser sé in dietro alquanto,
E tutti li altri che venieno appresso,
Non sappiendo ‘l perché, fenno altrettanto.
“Sanza vostra domanda io vi confesso
Che questo è corpo uman che voi vedete;
Per che ‘l lume del sole in terra è fesso.
Non vi maravigliate, ma credete
Che non sanza virtù che da ciel vegna
Cerchi di soverchiar questa parete”.
Così ‘l maestro; e quella gente degna
“Tornate”, disse, “intrate innanzi dunque”,
Coi dossi de le man faccendo insegna.
E un di loro incominciò: “Chiunque
Tu se’, così andando, volgi ‘l viso:
Pon mente se di là mi vedesti unque”.
Io mi volsi ver lui e guardail fiso:
Biondo era e bello e di gentile aspetto,
Ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.
Quand’io mi fui umilmente disdetto
D’averlo visto mai, el disse: “Or vedi”;
E mostrommi una piaga a sommo ‘l petto.
Poi sorridendo disse: “Io son Manfredi,
Nepote di Costanza imperadrice;
Ond’io ti priego che, quando tu riedi,
vadi a mia bella figlia, genitrice
De l’onor di Cicilia e d’Aragona,
E dichi ‘l vero a lei, s’altro si dice.
Poscia ch’io ebbi rotta la persona
Di due punte mortali, io mi rendei,
Piangendo, a quei che volontier perdona.
Orribil furon li peccati miei;
Ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
Che prende ciò che si rivolge a lei.
Se ‘l pastor di Cosenza, che a la caccia
Di me fu messo per Clemente allora,
Avesse in Dio ben letta questa faccia,
l’ossa del corpo mio sarieno ancora
In co del ponte presso a Benevento,
Sotto la guardia de la grave mora.
Or le bagna la pioggia e move il vento
Di fuor dal regno, quasi lungo ‘l Verde,
Dov’e’ le trasmutò a lume spento.
Per lor maladizion sì non si perde,
Che non possa tornar, l’etterno amore,
Mentre che la speranza ha fior del verde.
Vero è che quale in contumacia more
Di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,
Star li convien da questa ripa in fore,
per ognun tempo ch’elli è stato, trenta,
In sua presunzion, se tal decreto
Più corto per buon prieghi non diventa.
Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
Revelando a la mia buona Costanza
Come m’hai visto, e anco esto divieto;
ché qui per quei di là molto s’avanza”.

Purgatorio: Canto IV

Quando per dilettanze o ver per doglie,
Che alcuna virtù nostra comprenda
L’anima bene ad essa si raccoglie,
par ch’a nulla potenza più intenda;
E questo è contra quello error che crede
Ch’un’anima sovr’altra in noi s’accenda.
E però, quando s’ode cosa o vede
Che tegna forte a sé l’anima volta,
Vassene ‘l tempo e l’uom non se n’avvede;
ch’altra potenza è quella che l’ascolta,
E altra è quella c’ha l’anima intera:
Questa è quasi legata, e quella è sciolta.
Di ciò ebb’io esperienza vera,
Udendo quello spirto e ammirando;
Ché ben cinquanta gradi salito era
lo sole, e io non m’era accorto, quando
Venimmo ove quell’anime ad una
Gridaro a noi: “Qui è vostro dimando”.
Maggiore aperta molte volte impruna
Con una forcatella di sue spine
L’uom de la villa quando l’uva imbruna,
che non era la calla onde saline
Lo duca mio, e io appresso, soli,
Come da noi la schiera si partìne.
Vassi in Sanleo e discendesi in Noli,
Montasi su in Bismantova ‘n Cacume
Con esso i piè; ma qui convien ch’om voli;
dico con l’ale snelle e con le piume
Del gran disio, di retro a quel condotto
Che speranza mi dava e facea lume.
Noi salavam per entro ‘l sasso rotto,
E d’ogne lato ne stringea lo stremo,
E piedi e man volea il suol di sotto.
Poi che noi fummo in su l’orlo suppremo
De l’alta ripa, a la scoperta piaggia,
“Maestro mio”, diss’io, “che via faremo?”.
Ed elli a me: “Nessun tuo passo caggia;
Pur su al monte dietro a me acquista,
Fin che n’appaia alcuna scorta saggia”.
Lo sommo er’alto che vincea la vista,
E la costa superba più assai
Che da mezzo quadrante a centro lista.
Io era lasso, quando cominciai:
“O dolce padre, volgiti, e rimira
Com’io rimango sol, se non restai”.
“Figliuol mio”, disse, “infin quivi ti tira”,
Additandomi un balzo poco in sùe
Che da quel lato il poggio tutto gira.
Sì mi spronaron le parole sue,
Ch’i’ mi sforzai carpando appresso lui,
Tanto che ‘l cinghio sotto i piè mi fue.
A seder ci ponemmo ivi ambedui
Vòlti a levante ond’eravam saliti,
Che suole a riguardar giovare altrui.
Li occhi prima drizzai ai bassi liti;
Poscia li alzai al sole, e ammirava
Che da sinistra n’eravam feriti.
Ben s’avvide il poeta ch’io stava
Stupido tutto al carro de la luce,
Ove tra noi e Aquilone intrava.
Ond’elli a me: “Se Castore e Poluce
Fossero in compagnia di quello specchio
Che sù e giù del suo lume conduce,
tu vedresti il Zodiaco rubecchio
Ancora a l’Orse più stretto rotare,
Se non uscisse fuor del cammin vecchio.
Come ciò sia, se ‘l vuoi poter pensare,
Dentro raccolto, imagina Siòn
Con questo monte in su la terra stare
sì, ch’amendue hanno un solo orizzòn
E diversi emisperi; onde la strada
Che mal non seppe carreggiar Fetòn,
vedrai come a costui convien che vada
Da l’un, quando a colui da l’altro fianco,
Se lo ‘ntelletto tuo ben chiaro bada”.
“Certo, maestro mio,”, diss’io, “unquanco
Non vid’io chiaro sì com’io discerno
Là dove mio ingegno parea manco,
che ‘l mezzo cerchio del moto superno,
Che si chiama Equatore in alcun’arte,
E che sempre riman tra ‘l sole e ‘l verno,
per la ragion che di’ , quinci si parte
Verso settentrion, quanto li Ebrei
Vedevan lui verso la calda parte.
Ma se a te piace, volontier saprei
Quanto avemo ad andar; ché ‘l poggio sale
Più che salir non posson li occhi miei”.
Ed elli a me: “Questa montagna è tale,
Che sempre al cominciar di sotto è grave;
E quant’om più va sù, e men fa male.
Però, quand’ella ti parrà soave
Tanto, che sù andar ti fia leggero
Com’a seconda giù andar per nave,
allor sarai al fin d’esto sentiero;
Quivi di riposar l’affanno aspetta.
Più non rispondo, e questo so per vero”.
E com’elli ebbe sua parola detta,
Una voce di presso sonò: “Forse
Che di sedere in pria avrai distretta!”.
Al suon di lei ciascun di noi si torse,
E vedemmo a mancina un gran petrone,
Del qual né io né ei prima s’accorse.
Là ci traemmo; e ivi eran persone
Che si stavano a l’ombra dietro al sasso
Come l’uom per negghienza a star si pone.
E un di lor, che mi sembiava lasso,
Sedeva e abbracciava le ginocchia,
Tenendo ‘l viso giù tra esse basso.
“O dolce segnor mio”, diss’io, “adocchia
Colui che mostra sé più negligente
Che se pigrizia fosse sua serocchia”.
Allor si volse a noi e puose mente,
Movendo ‘l viso pur su per la coscia,
E disse: “Or va tu sù, che se’ valente!”.
Conobbi allor chi era, e quella angoscia
Che m’avacciava un poco ancor la lena,
Non m’impedì l’andare a lui; e poscia
ch’a lui fu’ giunto, alzò la testa a pena,
Dicendo: “Hai ben veduto come ‘l sole
Da l’omero sinistro il carro mena?”.
Li atti suoi pigri e le corte parole
Mosser le labbra mie un poco a riso;
Poi cominciai: “Belacqua, a me non dole
di te omai; ma dimmi: perché assiso
Quiritto se’? attendi tu iscorta,
O pur lo modo usato t’ha’ ripriso?”.
Ed elli: “O frate, andar in sù che porta?
Ché non mi lascerebbe ire a’ martìri
L’angel di Dio che siede in su la porta.
Prima convien che tanto il ciel m’aggiri
Di fuor da essa, quanto fece in vita,
Perch’io ‘ndugiai al fine i buon sospiri,
se orazione in prima non m’aita
Che surga sù di cuor che in grazia viva;
L’altra che val, che ‘n ciel non è udita?”.
E già il poeta innanzi mi saliva,
E dicea: “Vienne omai; vedi ch’è tocco
Meridian dal sole e a la riva
cuopre la notte già col piè Morrocco”.

Purgatorio: Canto V

Io era già da quell’ombre partito,
E seguitava l’orme del mio duca,
Quando di retro a me, drizzando ‘l dito,
una gridò: “Ve’ che non par che luca
Lo raggio da sinistra a quel di sotto,
E come vivo par che si conduca!”.
Li occhi rivolsi al suon di questo motto,
E vidile guardar per maraviglia
Pur me, pur me, e ‘l lume ch’era rotto.
“Perché l’animo tuo tanto s’impiglia”,
Disse ‘l maestro, “che l’andare allenti?
Che ti fa ciò che quivi si pispiglia?
Vien dietro a me, e lascia dir le genti:
Sta come torre ferma, che non crolla
Già mai la cima per soffiar di venti;
ché sempre l’omo in cui pensier rampolla
Sovra pensier, da sé dilunga il segno,
Perché la foga l’un de l’altro insolla”.
Che potea io ridir, se non “Io vegno”?
Dissilo, alquanto del color consperso
Che fa l’uom di perdon talvolta degno.
E ‘ntanto per la costa di traverso
Venivan genti innanzi a noi un poco,
Cantando ‘Miserere’ a verso a verso.
Quando s’accorser ch’i’ non dava loco
Per lo mio corpo al trapassar d’i raggi,
Mutar lor canto in un “oh!” lungo e roco;
e due di loro, in forma di messaggi,
Corsero incontr’a noi e dimandarne:
“Di vostra condizion fatene saggi”.
E ‘l mio maestro: “Voi potete andarne
E ritrarre a color che vi mandaro
Che ‘l corpo di costui è vera carne.
Se per veder la sua ombra restaro,
Com’io avviso, assai è lor risposto:
Fàccianli onore, ed essere può lor caro”.
Vapori accesi non vid’io sì tosto
Di prima notte mai fender sereno,
Né, sol calando, nuvole d’agosto,
che color non tornasser suso in meno;
E, giunti là, con li altri a noi dier volta
Come schiera che scorre sanza freno.
“Questa gente che preme a noi è molta,
E vegnonti a pregar”, disse ‘l poeta:
“però pur va, e in andando ascolta”.
“O anima che vai per esser lieta
Con quelle membra con le quai nascesti”,
Venian gridando, “un poco il passo queta.
Guarda s’alcun di noi unqua vedesti,
Sì che di lui di là novella porti:
Deh, perché vai? deh, perché non t’arresti?
Noi fummo tutti già per forza morti,
E peccatori infino a l’ultima ora;
Quivi lume del ciel ne fece accorti,
sì che, pentendo e perdonando, fora
Di vita uscimmo a Dio pacificati,
Che del disio di sé veder n’accora”.
E io: “Perché ne’ vostri visi guati,
Non riconosco alcun; ma s’a voi piace
Cosa ch’io possa, spiriti ben nati,
voi dite, e io farò per quella pace
Che, dietro a’ piedi di sì fatta guida
Di mondo in mondo cercar mi si face”.
E uno incominciò: “Ciascun si fida
Del beneficio tuo sanza giurarlo,
Pur che ‘l voler nonpossa non ricida.
Ond’io, che solo innanzi a li altri parlo,
Ti priego, se mai vedi quel paese
Che siede tra Romagna e quel di Carlo,
che tu mi sie di tuoi prieghi cortese
In Fano, sì che ben per me s’adori
Pur ch’i’ possa purgar le gravi offese.
Quindi fu’ io; ma li profondi fóri
Ond’uscì ‘l sangue in sul quale io sedea,
Fatti mi fuoro in grembo a li Antenori,
là dov’io più sicuro esser credea:
Quel da Esti il fé far, che m’avea in ira
Assai più là che dritto non volea.
Ma s’io fosse fuggito inver’ la Mira,
Quando fu’ sovragiunto ad Oriaco,
Ancor sarei di là dove si spira.
Corsi al palude, e le cannucce e ‘l braco
M’impigliar sì ch’i’ caddi; e lì vid’io
De le mie vene farsi in terra laco”.
Poi disse un altro: “Deh, se quel disio
Si compia che ti tragge a l’alto monte,
Con buona pietate aiuta il mio!
Io fui di Montefeltro, io son Bonconte;
Giovanna o altri non ha di me cura;
Per ch’io vo tra costor con bassa fronte”.
E io a lui: “Qual forza o qual ventura
Ti traviò sì fuor di Campaldino,
Che non si seppe mai tua sepultura?”.
“Oh!”, rispuos’elli, “a piè del Casentino
Traversa un’acqua c’ha nome l’Archiano,
Che sovra l’Ermo nasce in Apennino.
Là ‘ve ‘l vocabol suo diventa vano,
Arriva’ io forato ne la gola,
Fuggendo a piede e sanguinando il piano.
Quivi perdei la vista e la parola
Nel nome di Maria fini’, e quivi
Caddi, e rimase la mia carne sola.
Io dirò vero e tu ‘l ridì tra ‘ vivi:
L’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno
Gridava: “O tu del ciel, perché mi privi?
Tu te ne porti di costui l’etterno
Per una lagrimetta che ‘l mi toglie;
Ma io farò de l’altro altro governo!”.
Ben sai come ne l’aere si raccoglie
Quell’umido vapor che in acqua riede,
Tosto che sale dove ‘l freddo il coglie.
Giunse quel mal voler che pur mal chiede
Con lo ‘ntelletto, e mosse il fummo e ‘l vento
Per la virtù che sua natura diede.
Indi la valle, come ‘l dì fu spento,
Da Pratomagno al gran giogo coperse
Di nebbia; e ‘l ciel di sopra fece intento,
sì che ‘l pregno aere in acqua si converse;
La pioggia cadde e a’ fossati venne
Di lei ciò che la terra non sofferse;
e come ai rivi grandi si convenne,
Ver’ lo fiume real tanto veloce
Si ruinò, che nulla la ritenne.
Lo corpo mio gelato in su la foce
Trovò l’Archian rubesto; e quel sospinse
Ne l’Arno, e sciolse al mio petto la croce
ch’i’ fe’ di me quando ‘l dolor mi vinse;
Voltòmmi per le ripe e per lo fondo,
Poi di sua preda mi coperse e cinse”.
“Deh, quando tu sarai tornato al mondo,
E riposato de la lunga via”,
Seguitò ‘l terzo spirito al secondo,
“ricorditi di me, che son la Pia:
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
Salsi colui che ‘nnanellata pria
disposando m’avea con la sua gemma”.

Purgatorio: Canto VI

Quando si parte il gioco de la zara,
Colui che perde si riman dolente,
Repetendo le volte, e tristo impara;
con l’altro se ne va tutta la gente;
Qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
E qual dallato li si reca a mente;
el non s’arresta, e questo e quello intende;
A cui porge la man, più non fa pressa;
E così da la calca si difende.
Tal era io in quella turba spessa,
Volgendo a loro, e qua e là, la faccia,
E promettendo mi sciogliea da essa.
Quiv’era l’Aretin che da le braccia
Fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte,
E l’altro ch’annegò correndo in caccia.
Quivi pregava con le mani sporte
Federigo Novello, e quel da Pisa
Che fé parer lo buon Marzucco forte.
Vidi conte Orso e l’anima divisa
Dal corpo suo per astio e per inveggia,
Com’e’ dicea, non per colpa commisa;
Pier da la Broccia dico; e qui proveggia,
Mentr’è di qua, la donna di Brabante,
Sì che però non sia di peggior greggia.
Come libero fui da tutte quante
Quell’ombre che pregar pur ch’altri prieghi,
Sì che s’avacci lor divenir sante,
io cominciai: “El par che tu mi nieghi,
O luce mia, espresso in alcun testo
Che decreto del cielo orazion pieghi;
e questa gente prega pur di questo:
Sarebbe dunque loro speme vana,
O non m’è ‘l detto tuo ben manifesto?”.
Ed elli a me: “La mia scrittura è piana;
E la speranza di costor non falla,
Se ben si guarda con la mente sana;
ché cima di giudicio non s’avvalla
Perché foco d’amor compia in un punto
Ciò che de’ sodisfar chi qui s’astalla;
e là dov’io fermai cotesto punto,
Non s’ammendava, per pregar, difetto,
Perché ‘l priego da Dio era disgiunto.
Veramente a così alto sospetto
Non ti fermar, se quella nol ti dice
Che lume fia tra ‘l vero e lo ‘ntelletto.
Non so se ‘ntendi: io dico di Beatrice;
Tu la vedrai di sopra, in su la vetta
Di questo monte, ridere e felice”.
E io: “Segnore, andiamo a maggior fretta,
Ché già non m’affatico come dianzi,
E vedi omai che ‘l poggio l’ombra getta”.
“Noi anderem con questo giorno innanzi”,
Rispuose, “quanto più potremo omai;
Ma ‘l fatto è d’altra forma che non stanzi.
Prima che sie là sù, tornar vedrai
Colui che già si cuopre de la costa,
Sì che ‘ suoi raggi tu romper non fai.
Ma vedi là un’anima che, posta
Sola soletta, inverso noi riguarda:
Quella ne ‘nsegnerà la via più tosta”.
Venimmo a lei: o anima lombarda,
Come ti stavi altera e disdegnosa
E nel mover de li occhi onesta e tarda!
Ella non ci dicea alcuna cosa,
Ma lasciavane gir, solo sguardando
A guisa di leon quando si posa.
Pur Virgilio si trasse a lei, pregando
Che ne mostrasse la miglior salita;
E quella non rispuose al suo dimando,
ma di nostro paese e de la vita
Ci ‘nchiese; e ‘l dolce duca incominciava
“Mantua…”, e l’ombra, tutta in sé romita,
surse ver’ lui del loco ove pria stava,
Dicendo: “O Mantoano, io son Sordello
De la tua terra!”; e l’un l’altro abbracciava.
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
Nave sanza nocchiere in gran tempesta,
Non donna di province, ma bordello!
Quell’anima gentil fu così presta,
Sol per lo dolce suon de la sua terra,
Di fare al cittadin suo quivi festa;
e ora in te non stanno sanza guerra
Li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
Di quei ch’un muro e una fossa serra.
Cerca, misera, intorno da le prode
Le tue marine, e poi ti guarda in seno,
S’alcuna parte in te di pace gode.
Che val perché ti racconciasse il freno
Iustiniano, se la sella è vota?
Sanz’esso fora la vergogna meno.
Ahi gente che dovresti esser devota,
E lasciar seder Cesare in la sella,
Se bene intendi ciò che Dio ti nota,
guarda come esta fiera è fatta fella
Per non esser corretta da li sproni,
Poi che ponesti mano a la predella.
O Alberto tedesco ch’abbandoni
Costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
E dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio da le stelle caggia
Sovra ‘l tuo sangue, e sia novo e aperto,
Tal che ‘l tuo successor temenza n’aggia!
Ch’avete tu e ‘l tuo padre sofferto,
Per cupidigia di costà distretti,
Che ‘l giardin de lo ‘mperio sia diserto.
Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
Color già tristi, e questi con sospetti!
Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura
D’i tuoi gentili, e cura lor magagne;
E vedrai Santafior com’è oscura!
Vieni a veder la tua Roma che piagne
Vedova e sola, e dì e notte chiama:
“Cesare mio, perché non m’accompagne?”.
Vieni a veder la gente quanto s’ama!
E se nulla di noi pietà ti move,
A vergognar ti vien de la tua fama.
E se licito m’è, o sommo Giove
Che fosti in terra per noi crucifisso,
Son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
O è preparazion che ne l’abisso
Del tuo consiglio fai per alcun bene
In tutto de l’accorger nostro scisso?
Ché le città d’Italia tutte piene
Son di tiranni, e un Marcel diventa
Ogne villan che parteggiando viene.
Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
Di questa digression che non ti tocca,
Mercé del popol tuo che si argomenta.
Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
Per non venir sanza consiglio a l’arco;
Ma il popol tuo l’ha in sommo de la bocca.
Molti rifiutan lo comune incarco;
Ma il popol tuo solicito risponde
Sanza chiamare, e grida: “I’ mi sobbarco!”.
Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
Tu ricca, tu con pace, e tu con senno!
S’io dico ‘l ver, l’effetto nol nasconde.
Atene e Lacedemona, che fenno
L’antiche leggi e furon sì civili,
Fecero al viver bene un picciol cenno
verso di te, che fai tanto sottili
Provedimenti, ch’a mezzo novembre
Non giugne quel che tu d’ottobre fili.
Quante volte, del tempo che rimembre,
Legge, moneta, officio e costume
Hai tu mutato e rinovate membre!
E se ben ti ricordi e vedi lume,
Vedrai te somigliante a quella inferma
Che non può trovar posa in su le piume,
ma con dar volta suo dolore scherma.

Purgatorio: Canto VII

Poscia che l’accoglienze oneste e liete
Furo iterate tre e quattro volte,
Sordel si trasse, e disse: “Voi, chi siete?”.
“Anzi che a questo monte fosser volte
L’anime degne di salire a Dio,
Fur l’ossa mie per Ottavian sepolte.
Io son Virgilio; e per null’altro rio
Lo ciel perdei che per non aver fé”.
Così rispuose allora il duca mio.
Qual è colui che cosa innanzi sé
Sùbita vede ond’e’ si maraviglia,
Che crede e non, dicendo “Ella è… non è…”,
tal parve quelli; e poi chinò le ciglia,
E umilmente ritornò ver’ lui,
E abbracciòl là ‘ve ‘l minor s’appiglia.
“O gloria di Latin”, disse, “per cui
Mostrò ciò che potea la lingua nostra,
O pregio etterno del loco ond’io fui,
qual merito o qual grazia mi ti mostra?
S’io son d’udir le tue parole degno,
Dimmi se vien d’inferno, e di qual chiostra”.
“Per tutt’i cerchi del dolente regno”,
Rispuose lui, “son io di qua venuto;
Virtù del ciel mi mosse, e con lei vegno.
Non per far, ma per non fare ho perduto
A veder l’alto Sol che tu disiri
E che fu tardi per me conosciuto.
Luogo è là giù non tristo di martìri,
Ma di tenebre solo, ove i lamenti
Non suonan come guai, ma son sospiri.
Quivi sto io coi pargoli innocenti
Dai denti morsi de la morte avante
Che fosser da l’umana colpa essenti;
quivi sto io con quei che le tre sante
Virtù non si vestiro, e sanza vizio
Conobber l’altre e seguir tutte quante.
Ma se tu sai e puoi, alcuno indizio
Dà noi per che venir possiam più tosto
Là dove purgatorio ha dritto inizio”.
Rispuose: “Loco certo non c’è posto;
Licito m’è andar suso e intorno;
Per quanto ir posso, a guida mi t’accosto.
Ma vedi già come dichina il giorno,
E andar sù di notte non si puote;
Però è buon pensar di bel soggiorno.
Anime sono a destra qua remote:
Se mi consenti, io ti merrò ad esse,
E non sanza diletto ti fier note”.
“Com’è ciò?”, fu risposto. “Chi volesse
Salir di notte, fora elli impedito
D’altrui, o non sarria ché non potesse?”.
E ‘l buon Sordello in terra fregò ‘l dito,
Dicendo: “Vedi? sola questa riga
Non varcheresti dopo ‘l sol partito:
non però ch’altra cosa desse briga,
Che la notturna tenebra, ad ir suso;
Quella col nonpoder la voglia intriga.
Ben si poria con lei tornare in giuso
E passeggiar la costa intorno errando,
Mentre che l’orizzonte il dì tien chiuso”.
Allora il mio segnor, quasi ammirando,
“Menane”, disse, “dunque là ‘ve dici
Ch’aver si può diletto dimorando”.
Poco allungati c’eravam di lici,
Quand’io m’accorsi che ‘l monte era scemo,
A guisa che i vallon li sceman quici.
“Colà”, disse quell’ombra, “n’anderemo
Dove la costa face di sé grembo;
E là il novo giorno attenderemo”.
Tra erto e piano era un sentiero schembo,
Che ne condusse in fianco de la lacca,
Là dove più ch’a mezzo muore il lembo.
Oro e argento fine, cocco e biacca,
Indaco, legno lucido e sereno,
Fresco smeraldo in l’ora che si fiacca,
da l’erba e da li fior, dentr’a quel seno
Posti, ciascun saria di color vinto,
Come dal suo maggiore è vinto il meno.
Non avea pur natura ivi dipinto,
Ma di soavità di mille odori
Vi facea uno incognito e indistinto.
‘Salve, Regina’ in sul verde e ‘n su’ fiori
Quindi seder cantando anime vidi,
Che per la valle non parean di fuori.
“Prima che ‘l poco sole omai s’annidi”,
Cominciò ‘l Mantoan che ci avea vòlti,
“tra color non vogliate ch’io vi guidi.
Di questo balzo meglio li atti e ‘ volti
Conoscerete voi di tutti quanti,
Che ne la lama giù tra essi accolti.
Colui che più siede alto e fa sembianti
D’aver negletto ciò che far dovea,
E che non move bocca a li altrui canti,
Rodolfo imperador fu, che potea
Sanar le piaghe c’hanno Italia morta,
Sì che tardi per altri si ricrea.
L’altro che ne la vista lui conforta,
Resse la terra dove l’acqua nasce
Che Molta in Albia, e Albia in mar ne porta:
Ottacchero ebbe nome, e ne le fasce
Fu meglio assai che Vincislao suo figlio
Barbuto, cui lussuria e ozio pasce.
E quel nasetto che stretto a consiglio
Par con colui c’ha sì benigno aspetto,
Morì fuggendo e disfiorando il giglio:
guardate là come si batte il petto!
L’altro vedete c’ha fatto a la guancia
De la sua palma, sospirando, letto.
Padre e suocero son del mal di Francia:
Sanno la vita sua viziata e lorda,
E quindi viene il duol che sì li lancia.
Quel che par sì membruto e che s’accorda,
Cantando, con colui dal maschio naso,
D’ogne valor portò cinta la corda;
e se re dopo lui fosse rimaso
Lo giovanetto che retro a lui siede,
Ben andava il valor di vaso in vaso,
che non si puote dir de l’altre rede;
Iacomo e Federigo hanno i reami;
Del retaggio miglior nessun possiede.
Rade volte risurge per li rami
L’umana probitate; e questo vole
Quei che la dà, perché da lui si chiami.
Anche al nasuto vanno mie parole
Non men ch’a l’altro, Pier, che con lui canta,
Onde Puglia e Proenza già si dole.
Tant’è del seme suo minor la pianta,
Quanto più che Beatrice e Margherita,
Costanza di marito ancor si vanta.
Vedete il re de la semplice vita
Seder là solo, Arrigo d’Inghilterra:
Questi ha ne’ rami suoi migliore uscita.
Quel che più basso tra costor s’atterra,
Guardando in suso, è Guiglielmo marchese,
Per cui e Alessandria e la sua guerra
fa pianger Monferrato e Canavese”.

Purgatorio: Canto VIII

Era già l’ora che volge il disio
Ai navicanti e ‘ntenerisce il core
Lo dì c’han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d’amore
Punge, se ode squilla di lontano
Che paia il giorno pianger che si more;
quand’io incominciai a render vano

L’udire e a mirare una de l’alme
Surta, che l’ascoltar chiedea con mano.
Ella giunse e levò ambo le palme,
Ficcando li occhi verso l’oriente,
Come dicesse a Dio: ‘D’altro non calme’.
‘Te lucis ante’ sì devotamente
Le uscìo di bocca e con sì dolci note,
Che fece me a me uscir di mente;
e l’altre poi dolcemente e devote
Seguitar lei per tutto l’inno intero,
Avendo li occhi a le superne rote.
Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero,
Ché ‘l velo è ora ben tanto sottile,
Certo che ‘l trapassar dentro è leggero.
Io vidi quello essercito gentile
Tacito poscia riguardare in sùe
Quasi aspettando, palido e umìle;
e vidi uscir de l’alto e scender giùe
Due angeli con due spade affocate,
Tronche e private de le punte sue.
Verdi come fogliette pur mo nate
Erano in veste, che da verdi penne
Percosse traean dietro e ventilate.
L’un poco sovra noi a star si venne,
E l’altro scese in l’opposita sponda,
Sì che la gente in mezzo si contenne.
Ben discernea in lor la testa bionda;
Ma ne la faccia l’occhio si smarria,
Come virtù ch’a troppo si confonda.
“Ambo vegnon del grembo di Maria”,
Disse Sordello, “a guardia de la valle,
Per lo serpente che verrà vie via”.
Ond’io, che non sapeva per qual calle,
Mi volsi intorno, e stretto m’accostai,
Tutto gelato, a le fidate spalle.
E Sordello anco: “Or avvalliamo omai
Tra le grandi ombre, e parleremo ad esse;
Grazioso fia lor vedervi assai”.
Solo tre passi credo ch’i’ scendesse,
E fui di sotto, e vidi un che mirava
Pur me, come conoscer mi volesse.
Temp’era già che l’aere s’annerava,
Ma non sì che tra li occhi suoi e ‘ miei
Non dichiarisse ciò che pria serrava.
Ver’ me si fece, e io ver’ lui mi fei:
Giudice Nin gentil, quanto mi piacque
Quando ti vidi non esser tra ‘ rei!
Nullo bel salutar tra noi si tacque;
Poi dimandò: “Quant’è che tu venisti
A piè del monte per le lontane acque?”.
“Oh!”, diss’io lui, “per entro i luoghi tristi
Venni stamane, e sono in prima vita,
Ancor che l’altra, sì andando, acquisti”.
E come fu la mia risposta udita,
Sordello ed elli in dietro si raccolse
Come gente di sùbito smarrita.
L’uno a Virgilio e l’altro a un si volse
Che sedea lì, gridando:”Sù, Currado!
Vieni a veder che Dio per grazia volse”.
Poi, vòlto a me: “Per quel singular grado
Che tu dei a colui che sì nasconde
Lo suo primo perché, che non lì è guado,
quando sarai di là da le larghe onde,
Dì a Giovanna mia che per me chiami
Là dove a li ‘nnocenti si risponde.
Non credo che la sua madre più m’ami,
Poscia che trasmutò le bianche bende,
Le quai convien che, misera!, ancor brami.
Per lei assai di lieve si comprende
Quanto in femmina foco d’amor dura,
Se l’occhio o ‘l tatto spesso non l’accende.
Non le farà sì bella sepultura
La vipera che Melanesi accampa,
Com’avria fatto il gallo di Gallura”.
Così dicea, segnato de la stampa,
Nel suo aspetto, di quel dritto zelo
Che misuratamente in core avvampa.
Li occhi miei ghiotti andavan pur al cielo,
Pur là dove le stelle son più tarde,
Sì come rota più presso a lo stelo.
E ‘l duca mio: “Figliuol, che là sù guarde?”.
E io a lui: “A quelle tre facelle
Di che ‘l polo di qua tutto quanto arde”.
Ond’elli a me: “Le quattro chiare stelle
Che vedevi staman, son di là basse,
E queste son salite ov’eran quelle”.
Com’ei parlava, e Sordello a sé il trasse
Dicendo:”Vedi là ‘l nostro avversaro”;
E drizzò il dito perché ‘n là guardasse.
Da quella parte onde non ha riparo
La picciola vallea, era una biscia,
Forse qual diede ad Eva il cibo amaro.
Tra l’erba e ‘ fior venìa la mala striscia,
Volgendo ad ora ad or la testa, e ‘l dosso
Leccando come bestia che si liscia.
Io non vidi, e però dicer non posso,
Come mosser li astor celestiali;
Ma vidi bene e l’uno e l’altro mosso.
Sentendo fender l’aere a le verdi ali,
Fuggì ‘l serpente, e li angeli dier volta,
Suso a le poste rivolando iguali.
L’ombra che s’era al giudice raccolta
Quando chiamò, per tutto quello assalto
Punto non fu da me guardare sciolta.
“Se la lucerna che ti mena in alto
Truovi nel tuo arbitrio tanta cera
Quant’è mestiere infino al sommo smalto”,
cominciò ella, “se novella vera
Di Val di Magra o di parte vicina
Sai, dillo a me, che già grande là era.
Fui chiamato Currado Malaspina;
Non son l’antico, ma di lui discesi;
A’ miei portai l’amor che qui raffina”.
“Oh!”, diss’io lui, “per li vostri paesi
Già mai non fui; ma dove si dimora
Per tutta Europa ch’ei non sien palesi?
La fama che la vostra casa onora,
Grida i segnori e grida la contrada,
Sì che ne sa chi non vi fu ancora;
e io vi giuro, s’io di sopra vada,
Che vostra gente onrata non si sfregia
Del pregio de la borsa e de la spada.
Uso e natura sì la privilegia,
Che, perché il capo reo il mondo torca,
Sola va dritta e ‘l mal cammin dispregia”.
Ed elli: “Or va; che ‘l sol non si ricorca
Sette volte nel letto che ‘l Montone
Con tutti e quattro i piè cuopre e inforca,
che cotesta cortese oppinione
Ti fia chiavata in mezzo de la testa
Con maggior chiovi che d’altrui sermone,
se corso di giudicio non s’arresta”.

Purgatorio: Canto IX

La concubina di Titone antico
Già s’imbiancava al balco d’oriente,
Fuor de le braccia del suo dolce amico;
di gemme la sua fronte era lucente,
Poste in figura del freddo animale
Che con la coda percuote la gente;
e la notte, de’ passi con che sale,
Fatti avea due nel loco ov’eravamo,
E ‘l terzo già chinava in giuso l’ale;
quand’io, che meco avea di quel d’Adamo,
Vinto dal sonno, in su l’erba inchinai
Là ‘ve già tutti e cinque sedavamo.
Ne l’ora che comincia i tristi lai
La rondinella presso a la mattina,
Forse a memoria de’ suo’ primi guai,
e che la mente nostra, peregrina
Più da la carne e men da’ pensier presa,
A le sue vision quasi è divina,
in sogno mi parea veder sospesa
Un’aguglia nel ciel con penne d’oro,
Con l’ali aperte e a calare intesa;
ed esser mi parea là dove fuoro
Abbandonati i suoi da Ganimede,
Quando fu ratto al sommo consistoro.
Fra me pensava: ‘Forse questa fiede
Pur qui per uso, e forse d’altro loco
Disdegna di portarne suso in piede’.
Poi mi parea che, poi rotata un poco,
Terribil come folgor discendesse,
E me rapisse suso infino al foco.
Ivi parea che ella e io ardesse;
E sì lo ‘ncendio imaginato cosse,
Che convenne che ‘l sonno si rompesse.
Non altrimenti Achille si riscosse,
Li occhi svegliati rivolgendo in giro
E non sappiendo là dove si fosse,
quando la madre da Chirón a Schiro
Trafuggò lui dormendo in le sue braccia,
Là onde poi li Greci il dipartiro;
che mi scoss’io, sì come da la faccia
Mi fuggì ‘l sonno, e diventa’ ismorto,
Come fa l’uom che, spaventato, agghiaccia.
Dallato m’era solo il mio conforto,
E ‘l sole er’alto già più che due ore,
E ‘l viso m’era a la marina torto.
“Non aver tema”, disse il mio segnore;
“fatti sicur, ché noi semo a buon punto;
Non stringer, ma rallarga ogne vigore.
Tu se’ omai al purgatorio giunto:
Vedi là il balzo che ‘l chiude dintorno;
Vedi l’entrata là ‘ve par digiunto.
Dianzi, ne l’alba che procede al giorno,
Quando l’anima tua dentro dormia,
Sovra li fiori ond’è là giù addorno
venne una donna, e disse: “I’ son Lucia;
Lasciatemi pigliar costui che dorme;
Sì l’agevolerò per la sua via”.
Sordel rimase e l’altre genti forme;
Ella ti tolse, e come ‘l dì fu chiaro,
Sen venne suso; e io per le sue orme.
Qui ti posò, ma pria mi dimostraro
Li occhi suoi belli quella intrata aperta;
Poi ella e ‘l sonno ad una se n’andaro”.
A guisa d’uom che ‘n dubbio si raccerta
E che muta in conforto sua paura,
Poi che la verità li è discoperta,
mi cambia’ io; e come sanza cura
Vide me ‘l duca mio, su per lo balzo
Si mosse, e io di rietro inver’ l’altura.
Lettor, tu vedi ben com’io innalzo
La mia matera, e però con più arte
Non ti maravigliar s’io la rincalzo.
Noi ci appressammo, ed eravamo in parte,
Che là dove pareami prima rotto,
Pur come un fesso che muro diparte,
vidi una porta, e tre gradi di sotto
Per gire ad essa, di color diversi,
E un portier ch’ancor non facea motto.
E come l’occhio più e più v’apersi,
Vidil seder sovra ‘l grado sovrano,
Tal ne la faccia ch’io non lo soffersi;
e una spada nuda avea in mano,
Che reflettea i raggi sì ver’ noi,
Ch’io drizzava spesso il viso in vano.
“Dite costinci: che volete voi?”,
Cominciò elli a dire, “ov’è la scorta?
Guardate che ‘l venir sù non vi nòi”.
“Donna del ciel, di queste cose accorta”,
Rispuose ‘l mio maestro a lui, “pur dianzi
Ne disse: “Andate là: quivi è la porta””.
“Ed ella i passi vostri in bene avanzi”,
Ricominciò il cortese portinaio:
“Venite dunque a’ nostri gradi innanzi”.
Là ne venimmo; e lo scaglion primaio
Bianco marmo era sì pulito e terso,
Ch’io mi specchiai in esso qual io paio.
Era il secondo tinto più che perso,
D’una petrina ruvida e arsiccia,
Crepata per lo lungo e per traverso.
Lo terzo, che di sopra s’ammassiccia,
Porfido mi parea, sì fiammeggiante,
Come sangue che fuor di vena spiccia.
Sovra questo tenea ambo le piante
L’angel di Dio, sedendo in su la soglia,
Che mi sembiava pietra di diamante.
Per li tre gradi sù di buona voglia
Mi trasse il duca mio, dicendo: “Chiedi
Umilemente che ‘l serrame scioglia”.
Divoto mi gittai a’ santi piedi;
Misericordia chiesi e ch’el m’aprisse,
Ma tre volte nel petto pria mi diedi.
Sette P ne la fronte mi descrisse
Col punton de la spada, e “Fa che lavi,
Quando se’ dentro, queste piaghe”, disse.
Cenere, o terra che secca si cavi,
D’un color fora col suo vestimento;
E di sotto da quel trasse due chiavi.
L’una era d’oro e l’altra era d’argento;
Pria con la bianca e poscia con la gialla
Fece a la porta sì, ch’i’ fu’ contento.
“Quandunque l’una d’este chiavi falla,
Che non si volga dritta per la toppa”,
Diss’elli a noi, “non s’apre questa calla.
Più cara è l’una; ma l’altra vuol troppa
D’arte e d’ingegno avanti che diserri,
Perch’ella è quella che ‘l nodo digroppa.
Da Pier le tegno; e dissemi ch’i’ erri
Anzi ad aprir ch’a tenerla serrata,
Pur che la gente a’ piedi mi s’atterri”.
Poi pinse l’uscio a la porta sacrata,
Dicendo: “Intrate; ma facciovi accorti
Che di fuor torna chi ‘n dietro si guata”.
E quando fuor ne’ cardini distorti
Li spigoli di quella regge sacra,
Che di metallo son sonanti e forti,
non rugghiò sì né si mostrò sì acra
Tarpea, come tolto le fu il buono
Metello, per che poi rimase macra.
Io mi rivolsi attento al primo tuono,
E ‘Te Deum laudamus’ mi parea
Udire in voce mista al dolce suono.
Tale imagine a punto mi rendea
Ciò ch’io udiva, qual prender si suole
Quando a cantar con organi si stea;
ch’or sì or no s’intendon le parole.

Purgatorio: Canto X

Poi fummo dentro al soglio de la porta
Che ‘l mal amor de l’anime disusa,
Perché fa parer dritta la via torta,
sonando la senti’ esser richiusa;
E s’io avesse li occhi vòlti ad essa,
Qual fora stata al fallo degna scusa?
Noi salavam per una pietra fessa,
Che si moveva e d’una e d’altra parte,
Sì come l’onda che fugge e s’appressa.
“Qui si conviene usare un poco d’arte”,
Cominciò ‘l duca mio, “in accostarsi
Or quinci, or quindi al lato che si parte”.
E questo fece i nostri passi scarsi,
Tanto che pria lo scemo de la luna
Rigiunse al letto suo per ricorcarsi,
che noi fossimo fuor di quella cruna;
Ma quando fummo liberi e aperti
Sù dove il monte in dietro si rauna,
io stancato e amendue incerti
Di nostra via, restammo in su un piano
Solingo più che strade per diserti.
Da la sua sponda, ove confina il vano,
Al piè de l’alta ripa che pur sale,
Misurrebbe in tre volte un corpo umano;
e quanto l’occhio mio potea trar d’ale,
Or dal sinistro e or dal destro fianco,
Questa cornice mi parea cotale.
Là sù non eran mossi i piè nostri anco,
Quand’io conobbi quella ripa intorno
Che dritto di salita aveva manco,
esser di marmo candido e addorno
D’intagli sì, che non pur Policleto,
Ma la natura lì avrebbe scorno.
L’angel che venne in terra col decreto
De la molt’anni lagrimata pace,
Ch’aperse il ciel del suo lungo divieto,
dinanzi a noi pareva sì verace
Quivi intagliato in un atto soave,
Che non sembiava imagine che tace.
Giurato si saria ch’el dicesse ‘Ave!’;
Perché iv’era imaginata quella
Ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave;
e avea in atto impressa esta favella
‘Ecce ancilla Dei’, propriamente
Come figura in cera si suggella.
“Non tener pur ad un loco la mente”,
Disse ‘l dolce maestro, che m’avea
Da quella parte onde ‘l cuore ha la gente.
Per ch’i’ mi mossi col viso, e vedea
Di retro da Maria, da quella costa
Onde m’era colui che mi movea,
un’altra storia ne la roccia imposta;
Per ch’io varcai Virgilio, e fe’mi presso,
Acciò che fosse a li occhi miei disposta.
Era intagliato lì nel marmo stesso
Lo carro e ‘ buoi, traendo l’arca santa,
Per che si teme officio non commesso.
Dinanzi parea gente; e tutta quanta,
Partita in sette cori, a’ due mie’ sensi
Faceva dir l’un “No”, l’altro “Sì, canta”.
Similemente al fummo de li ‘ncensi
Che v’era imaginato, li occhi e ‘l naso
E al sì e al no discordi fensi.
Lì precedeva al benedetto vaso,
Trescando alzato, l’umile salmista,
E più e men che re era in quel caso.
Di contra, effigiata ad una vista
D’un gran palazzo, Micòl ammirava
Sì come donna dispettosa e trista.
I’ mossi i piè del loco dov’io stava,
Per avvisar da presso un’altra istoria,
Che di dietro a Micòl mi biancheggiava.
Quiv’era storiata l’alta gloria
Del roman principato, il cui valore
Mosse Gregorio a la sua gran vittoria;
i’ dico di Traiano imperadore;
E una vedovella li era al freno,
Di lagrime atteggiata e di dolore.
Intorno a lui parea calcato e pieno
Di cavalieri, e l’aguglie ne l’oro
Sovr’essi in vista al vento si movieno.
La miserella intra tutti costoro
Pareva dir: “Segnor, fammi vendetta
Di mio figliuol ch’è morto, ond’io m’accoro”;
ed elli a lei rispondere: “Or aspetta
Tanto ch’i’ torni”; e quella: “Segnor mio”,
Come persona in cui dolor s’affretta,
“se tu non torni?”; ed ei: “Chi fia dov’io,
La ti farà”; ed ella: “L’altrui bene
A te che fia, se ‘l tuo metti in oblio?”;
ond’elli: “Or ti conforta; ch’ei convene
Ch’i’ solva il mio dovere anzi ch’i’ mova:
Giustizia vuole e pietà mi ritene”.
Colui che mai non vide cosa nova
Produsse esto visibile parlare,
Novello a noi perché qui non si trova.
Mentr’io mi dilettava di guardare
L’imagini di tante umilitadi,
E per lo fabbro loro a veder care,
“Ecco di qua, ma fanno i passi radi”,
Mormorava il poeta, “molte genti:
Questi ne ‘nvieranno a li alti gradi”.
Li occhi miei ch’a mirare eran contenti
Per veder novitadi ond’e’ son vaghi,
Volgendosi ver’ lui non furon lenti.
Non vo’ però, lettor, che tu ti smaghi
Di buon proponimento per udire
Come Dio vuol che ‘l debito si paghi.
Non attender la forma del martìre:
Pensa la succession; pensa ch’al peggio,
Oltre la gran sentenza non può ire.
Io cominciai: “Maestro, quel ch’io veggio
Muovere a noi, non mi sembian persone,
E non so che, sì nel veder vaneggio”.
Ed elli a me: “La grave condizione
Di lor tormento a terra li rannicchia,
Sì che ‘ miei occhi pria n’ebber tencione.
Ma guarda fiso là, e disviticchia
Col viso quel che vien sotto a quei sassi:
Già scorger puoi come ciascun si picchia”.
O superbi cristian, miseri lassi,
Che, de la vista de la mente infermi,
Fidanza avete ne’ retrosi passi,
non v’accorgete voi che noi siam vermi
Nati a formar l’angelica farfalla,
Che vola a la giustizia sanza schermi?
Di che l’animo vostro in alto galla,
Poi siete quasi antomata in difetto,
Sì come vermo in cui formazion falla?
Come per sostentar solaio o tetto,
Per mensola talvolta una figura
Si vede giugner le ginocchia al petto,
la qual fa del non ver vera rancura
Nascere ‘n chi la vede; così fatti
Vid’io color, quando puosi ben cura.
Vero è che più e meno eran contratti
Secondo ch’avien più e meno a dosso;
E qual più pazienza avea ne li atti,
piangendo parea dicer: ‘Più non posso’.

Purgatorio: Canto XI

“O Padre nostro, che ne’ cieli stai,
Non circunscritto, ma per più amore

Ch’ai primi effetti di là sù tu hai,
laudato sia ‘l tuo nome e ‘l tuo valore
Da ogni creatura, com’è degno
Di render grazie al tuo dolce vapore.
Vegna ver’ noi la pace del tuo regno,
Ché noi ad essa non potem da noi,
S’ella non vien, con tutto nostro ingegno.
Come del suo voler li angeli tuoi
Fan sacrificio a te, cantando osanna,
Così facciano li uomini de’ suoi.
Dà oggi a noi la cotidiana manna,
Sanza la qual per questo aspro diserto
A retro va chi più di gir s’affanna.
E come noi lo mal ch’avem sofferto
Perdoniamo a ciascuno, e tu perdona
Benigno, e non guardar lo nostro merto.
Nostra virtù che di legger s’adona,
Non spermentar con l’antico avversaro,
Ma libera da lui che sì la sprona.
Quest’ultima preghiera, segnor caro,
Già non si fa per noi, ché non bisogna,
Ma per color che dietro a noi restaro”.
Così a sé e noi buona ramogna
Quell’ombre orando, andavan sotto ‘l pondo,
Simile a quel che tal volta si sogna,
disparmente angosciate tutte a tondo
E lasse su per la prima cornice,
Purgando la caligine del mondo.
Se di là sempre ben per noi si dice,
Di qua che dire e far per lor si puote
Da quei ch’hanno al voler buona radice?
Ben si de’ loro atar lavar le note
Che portar quinci, sì che, mondi e lievi,
Possano uscire a le stellate ruote.
“Deh, se giustizia e pietà vi disgrievi
Tosto, sì che possiate muover l’ala,
Che secondo il disio vostro vi lievi,
mostrate da qual mano inver’ la scala
Si va più corto; e se c’è più d’un varco,
Quel ne ‘nsegnate che men erto cala;
ché questi che vien meco, per lo ‘ncarco
De la carne d’Adamo onde si veste,
Al montar sù, contra sua voglia, è parco”.
Le lor parole, che rendero a queste
Che dette avea colui cu’ io seguiva,
Non fur da cui venisser manifeste;
ma fu detto: “A man destra per la riva
Con noi venite, e troverete il passo
Possibile a salir persona viva.
E s’io non fossi impedito dal sasso
Che la cervice mia superba doma,
Onde portar convienmi il viso basso,
cotesti, ch’ancor vive e non si noma,
Guardere’ io, per veder s’i’ ‘l conosco,
E per farlo pietoso a questa soma.
Io fui latino e nato d’un gran Tosco:
Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre;
Non so se ‘l nome suo già mai fu vosco.
L’antico sangue e l’opere leggiadre
D’i miei maggior mi fer sì arrogante,
Che, non pensando a la comune madre,
ogn’uomo ebbi in despetto tanto avante,
Ch’io ne mori’, come i Sanesi sanno
E sallo in Campagnatico ogne fante.
Io sono Omberto; e non pur a me danno
Superbia fa, ché tutti miei consorti
Ha ella tratti seco nel malanno.
E qui convien ch’io questo peso porti
Per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia,
Poi ch’io nol fe’ tra ‘ vivi, qui tra ‘ morti”.
Ascoltando chinai in giù la faccia;
E un di lor, non questi che parlava,
Si torse sotto il peso che li ‘mpaccia,
e videmi e conobbemi e chiamava,
Tenendo li occhi con fatica fisi
A me che tutto chin con loro andava.
“Oh!”, diss’io lui, “non se’ tu Oderisi,
L’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte
Ch’alluminar chiamata è in Parisi?”.
“Frate”, diss’elli, “più ridon le carte
Che pennelleggia Franco Bolognese;
L’onore è tutto or suo, e mio in parte.
Ben non sare’ io stato sì cortese
Mentre ch’io vissi, per lo gran disio
De l’eccellenza ove mio core intese.
Di tal superbia qui si paga il fio;
E ancor non sarei qui, se non fosse
Che, possendo peccar, mi volsi a Dio.
Oh vana gloria de l’umane posse!
Com’poco verde in su la cima dura,
Se non è giunta da l’etati grosse!
Credette Cimabue ne la pittura
Tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
Sì che la fama di colui è scura:
così ha tolto l’uno a l’altro Guido
La gloria de la lingua; e forse è nato
Chi l’uno e l’altro caccerà del nido.
Non è il mondan romore altro ch’un fiato
Di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
E muta nome perché muta lato.
Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
Da te la carne, che se fossi morto
Anzi che tu lasciassi il ‘pappo’ e ‘l ‘dindi’,
pria che passin mill’anni? ch’è più corto
Spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia
Al cerchio che più tardi in cielo è torto.
Colui che del cammin sì poco piglia
Dinanzi a me, Toscana sonò tutta;
E ora a pena in Siena sen pispiglia,
ond’era sire quando fu distrutta
La rabbia fiorentina, che superba
Fu a quel tempo sì com’ora è putta.
La vostra nominanza è color d’erba,
Che viene e va, e quei la discolora
Per cui ella esce de la terra acerba”.
E io a lui: “Tuo vero dir m’incora
Bona umiltà, e gran tumor m’appiani;
Ma chi è quei di cui tu parlavi ora?”.
“Quelli è”, rispuose, “Provenzan Salvani;
Ed è qui perché fu presuntuoso
A recar Siena tutta a le sue mani.
Ito è così e va, sanza riposo,
Poi che morì; cotal moneta rende
A sodisfar chi è di là troppo oso”.
E io: “Se quello spirito ch’attende,
Pria che si penta, l’orlo de la vita,
Qua giù dimora e qua sù non ascende,
se buona orazion lui non aita,
Prima che passi tempo quanto visse,
Come fu la venuta lui largita?”.
“Quando vivea più glorioso”, disse,
“liberamente nel Campo di Siena,
Ogne vergogna diposta, s’affisse;
e lì, per trar l’amico suo di pena
Ch’e’ sostenea ne la prigion di Carlo,
Si condusse a tremar per ogne vena.
Più non dirò, e scuro so che parlo;
Ma poco tempo andrà, che ‘ tuoi vicini
Faranno sì che tu potrai chiosarlo.
Quest’opera li tolse quei confini”.

Purgatorio: Canto XII

Di pari, come buoi che vanno a giogo,
M’andava io con quell’anima carca,
Fin che ‘l sofferse il dolce pedagogo.
Ma quando disse: “Lascia lui e varca;
Ché qui è buono con l’ali e coi remi,
Quantunque può, ciascun pinger sua barca”;
dritto sì come andar vuolsi rife’mi
Con la persona, avvegna che i pensieri
Mi rimanessero e chinati e scemi.
Io m’era mosso, e seguia volontieri
Del mio maestro i passi, e amendue
Già mostravam com’eravam leggeri;
ed el mi disse: “Volgi li occhi in giùe:
Buon ti sarà, per tranquillar la via,
Veder lo letto de le piante tue”.
Come, perché di lor memoria sia,
Sovra i sepolti le tombe terragne
Portan segnato quel ch’elli eran pria,
onde lì molte volte si ripiagne
Per la puntura de la rimembranza,
Che solo a’ pii dà de le calcagne;
sì vid’io lì, ma di miglior sembianza
Secondo l’artificio, figurato
Quanto per via di fuor del monte avanza.
Vedea colui che fu nobil creato
Più ch’altra creatura, giù dal cielo
Folgoreggiando scender, da l’un lato.
Vedea Briareo, fitto dal telo
Celestial giacer, da l’altra parte,
Grave a la terra per lo mortal gelo.
Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte,
Armati ancora, intorno al padre loro,
Mirar le membra d’i Giganti sparte.
Vedea Nembròt a piè del gran lavoro
Quasi smarrito, e riguardar le genti
Che ‘n Sennaàr con lui superbi fuoro.
O Niobè, con che occhi dolenti
Vedea io te segnata in su la strada,
Tra sette e sette tuoi figliuoli spenti!
O Saùl, come in su la propria spada
Quivi parevi morto in Gelboè,
Che poi non sentì pioggia né rugiada!
O folle Aragne, sì vedea io te
Già mezza ragna, trista in su li stracci
De l’opera che mal per te si fé.
O Roboàm, già non par che minacci
Quivi ‘l tuo segno; ma pien di spavento
Nel porta un carro, sanza ch’altri il cacci.
Mostrava ancor lo duro pavimento
Come Almeon a sua madre fé caro
Parer lo sventurato addornamento.
Mostrava come i figli si gittaro
Sovra Sennacherìb dentro dal tempio,
E come, morto lui, quivi il lasciaro.
Mostrava la ruina e ‘l crudo scempio
Che fé Tamiri, quando disse a Ciro:
“Sangue sitisti, e io di sangue t’empio”.
Mostrava come in rotta si fuggiro
Li Assiri, poi che fu morto Oloferne,
E anche le reliquie del martiro.
Vedeva Troia in cenere e in caverne;
O Ilión, come te basso e vile
Mostrava il segno che lì si discerne!
Qual di pennel fu maestro o di stile
Che ritraesse l’ombre e ‘ tratti ch’ivi
Mirar farieno uno ingegno sottile?
Morti li morti e i vivi parean vivi:
Non vide mei di me chi vide il vero,
Quant’io calcai, fin che chinato givi.
Or superbite, e via col viso altero,
Figliuoli d’Eva, e non chinate il volto
Sì che veggiate il vostro mal sentero!
Più era già per noi del monte vòlto
E del cammin del sole assai più speso
Che non stimava l’animo non sciolto,
quando colui che sempre innanzi atteso
Andava, cominciò: “Drizza la testa;
Non è più tempo di gir sì sospeso.
Vedi colà un angel che s’appresta
Per venir verso noi; vedi che torna
Dal servigio del dì l’ancella sesta.
Di reverenza il viso e li atti addorna,
Sì che i diletti lo ‘nviarci in suso;
Pensa che questo dì mai non raggiorna!”.
Io era ben del suo ammonir uso
Pur di non perder tempo, sì che ‘n quella
Materia non potea parlarmi chiuso.
A noi venìa la creatura bella,
Biancovestito e ne la faccia quale
Par tremolando mattutina stella.
Le braccia aperse, e indi aperse l’ale;
Disse: “Venite: qui son presso i gradi,
E agevolemente omai si sale.
A questo invito vegnon molto radi:
O gente umana, per volar sù nata,
Perché a poco vento così cadi?”.
Menocci ove la roccia era tagliata;
Quivi mi batté l’ali per la fronte;
Poi mi promise sicura l’andata.
Come a man destra, per salire al monte
Dove siede la chiesa che soggioga
La ben guidata sopra Rubaconte,
si rompe del montar l’ardita foga
Per le scalee che si fero ad etade
Ch’era sicuro il quaderno e la doga;
così s’allenta la ripa che cade
Quivi ben ratta da l’altro girone;
Ma quinci e quindi l’alta pietra rade.
Noi volgendo ivi le nostre persone,
‘Beati pauperes spiritu!’ voci
Cantaron sì, che nol diria sermone.
Ahi quanto son diverse quelle foci
Da l’


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Purgatorio (Italian)